L’espressione Vajont, usata nelle normali comunicazioni di massa, non richiede alcuna spiegazione. E’ una parola che riesce ad esprimere una moltitudine di significati che si susseguono nella mente di chi la pensa come una moviola che, a ritroso, ripercorre le vicende storiche della diga, il tragico evento che colpì Longarone e le drammatiche conseguenze che hanno coinvolto cose e persone.

Ero un bambino il 9 ottobre 1963 e come tutti i miei coetanei ero a scuola a Caprile mentre a Digonera procedevano alacremente i lavori di sbarramento del Cordevole. Strana atmosfera quella creata dagli adulti all’indomani della nota sciagura. Dalle parole e dai comportamenti dei genitori e delle maestre giungeva, in modo involontario, il messaggio di una morte di massa violenta, un messaggio colto dalla nostra innocenza che, pur limitativa della nostra capacità di comprendere la dimensione dell’accaduto, segnò per sempre nella nostra memoria il ricordo di una giornata in cui il sole che illuminava i sorrisi e i giochi dei bambini, viene oscurato dal buio di un’eclisse improvvisa, inattesa.

Ricordo le fotografie delle croci fissate al suolo dai soccorritori, alpini e volontari, con i volti sfigurati dal fango e dal dolore. I corpi estratti ed avvolti nei sudari improvvisati e subiti rimessi nella terra, quella giusta ordinata e composta. Una sequenza di croci che formavano file senza fine, una agghiacciante distesa di attonito sgomento e di paura. Queste umili e semplici croci tutte uguali riuscirono più di ogni altra cosa a trasmettere il senso e la dimensione della tragedia.
Piangevano gli adulti, piangevano i bambini: “Maestra, perché quelle croci sono tutte uguali?”

Il 9 ottobre di ogni anno a Longarone la vita si ferma, si avverte un disagio avvolto da un silenzio di memoria. Lo sguardo volge verso la diga cercando di immaginare il fragore, le dimensioni, la traiettoria dell’onda assassina e i suoni sinistri della tragedia che il vento portò nel mondo come un messaggero di morte e disperazione. Soffia ancora quel vento nella valle del Piave, il suo sibilo invisibile, come una sirena rievoca i fantasmi della notte maledetta. Pochi istanti, la vita è ferma come il cuore delle vittime che l’ira della natura violenta e violentata portò con sé.

Con questi sentimenti sono stato a visitare il nuovo cimitero delle vittime del Vajont a Fortogna. Non ho percepito quelle sensazioni vissute e prima descritte, non ho avvertito il tumulto della morte collettiva come mi sarei aspettato da un’opera monumentale così significativa, è un cimitero costruito bene, pulito e curato ma è un cimitero diviso in due per una morte serena, naturale o tutt’al più eroica. Forse il tempo cancella le emozioni più di quanto ce ne rendiamo conto, forse gli eventi quotidiani rimuovono dalla memoria i dispiaceri e le angosce più di quanto esprimano le parole commosse nelle ricorrenze e nelle manifestazioni, forse sono il solito esagerato che cerca il classico pelo nell’uovo, in fin dei conti la legge è stata rispettata, contestazioni non ce ne sono state, l’Amministrazione di Longarone ha manifestato viva soddisfazione, ma quelle croci tutte uguali...

I traumi, piccoli o grandi che siano, un bambino se li porta appresso e quando gli anniversari e gli avvenimenti li ripropongono cerca di dividerli con gli altri attraverso incontri, cerimonie e toccanti contatti umani. Anche con l’architettura, ma solo con coloro che ne riconoscono la grande forza di trasmettere significati ed emozioni. In questo cimitero non ho colto la tragedia causata dall’acqua del Vajont, quell’acqua che dovrebbe insegnarci la vita.

Arnelio Giovanni Bortoluzzi