"Gli effetti della guerra, come fame e miseria, bisogna provarli sulla propria pelle e, posso garantirlo, si avvertono in modo molto differente da quelli che si vedono oggi in televisione seduti in poltrona".

Così raccontava, con la voce sempre più fioca ed ansimante, Ugo Casal scomparso il 10 marzo 2007. Classe 1928, era uno dei ragazzi di Paderno, comune di San Gregorio nelle Alpi che, nell’immediato dopoguerra, dopo aver girovagato per la provincia in cerca di lavoro, decise di cercare fortuna all’estero non appena l’espatrio fu permesso dalle autorità.

"Per andare in Svizzera occorreva avere qualche conoscenza- soleva ricordare ridacchiando- mentre per scendere a mille metri in una miniera del Belgio era sufficiente presentarsi ad uno degli annunci che si trovavano nei Comuni".

Perché no? Se questo, ovvero niente, era ciò che offriva la propria terra alla luce del sole, tanto valeva andare a vedere di che colore era il carbone a mille metri di profondità in una miniera belga. Non c’era spazio per lacrimevoli addii, nella valigia solo salute, braccia e voglia di vivere perché la vita rimane comunque un’avventura dovunque essa venga vissuta. Lamentarsi era inutile, la realtà andava guardata in faccia, era il 1948.

La tradotta fermò a Bribano, ad attenderla con Ugo c’erano Benito, Casanova detto "Primet" e Dalla Mora Italo. Prima ed unica tappa la stazione di Milano dove nei sotterranei furono stipati migliaia di aspiranti minatori, di tutte le età e di tutte le regioni. Qui, nell’arco di due giornate, vennero sottoposti alle visite mediche. Non tutti risultarono idonei, chi presentava qualche difetto fisico veniva rispedito a casa senza tanti complimenti. A quelli abili vennero dati in dotazione una camicia ed un paio di pantaloni dell’esercito americano. Dopo due giorni le porte della tradotta, pattugliate dalla polizia, vennero chiuse e si sarebbero riaperte solamente in Belgio, unica destinazione ammessa. Le sole fermate alle frontiere per i controlli di rito.

Ugo e i suoi amici si fermarono a Liegi perché alcuni conoscenti avevano detto loro di raggiungerli ad Hans un paese poco distante dalla fermata.

La prima impressione fu negativa, non c’erano le casette bianche e pulite della Valbelluna ma solo case di mattoni scuri resi ancor più neri dalla polvere che danzava nell’aria trasportata dal vento che scendeva dal nord. Grandi fabbriche e ciminiere fumanti segno di un’industria in pieno fermento. Tutti erano consapevoli che prima bisognava rimboccarsi le maniche e poi chiedere il pane, nessun soccorso dovuto, ma tutto normale per chi era stato abituato sin da bambino ad imparare i doveri prima ed i diritti poi.

Una sorta di caporale, rappresentante una miniera, aspettava le comitive e reclutava coloro che avessero accettato l’invito. La miniera proposta si chiamava "Esperance". Una valeva l’altra, in assenza di una meta precisa, tutti si aggregarono a questo "capo".

" Siamo entrati in un ufficio- ricordava Ugo- dove una signorina, una assistente sociale, ci ha presi in carico. Ci hanno fotografato ed adempiuto alle prassi burocratiche per regolarizzare l’attività lavorativa. Poi siamo stati accompagnati dalla polizia per le operazioni di riconoscimento ed il rilevamento delle impronte digitali. Tutti gentili ma nessun margine di discussione".

Lo stesso giorno, espletate tutte formalità, ad ogni persona vennero consegnate le carte che attestavano la regolarità della loro permanenza in Belgio. Un addetto consegnò i documenti in quella che i belgi chiamavano "cantina", che in realtà corrispondeva alla nostra cucina.

"Eravamo alloggiati in un ex campo di concentramento dove le baracche erano state sistemate e dotate di acqua calda e appunto la cucina. Non aveva perso le caratteristiche del lager. Era tutto recintato, c’era una sola porta sia per l’accesso che per l’ uscita. Le visite continuarono anche il giorno dopo con l’aggiunta di numerose domande di carattere privato per avere una sorta di scheda personale di ognuno di noi".

La lingua non rappresentava un problema, si trattava soltanto di obbedire ai gesti eloquenti della polizia, le parole da dire erano limitate alle generalità, alla provenienza ed a quelle strettamente personali su esplicita richiesta degli addetti. Il personale era abituato a ricevere questi "poveri Cristi" e le operazioni di reclutamento erano talmente scontate e meccaniche che parlare non serviva.

In seguito, guidati dal capo responsabile, Ugo ed i suoi amici scesero nella miniera a 600 m di profondità. Le parole si strozzarono nella gola deglutite a stento e quei pochi suoni emessi dai lavori in corso di svolgimento riecheggiavano amplificati dall’eco cupo e sinistro che si sviluppava nelle gallerie sino ad infrangersi nei filoni di carbone che attendevano di essere scavati e portati all’aria aperta. Con gesti sicuri e decisi il capo spiegava agli attoniti "giovanotti" i meccanismi delle operazioni, indicava i minatori, i loro compiti, i carrelli con il carico, gli ascensori, la tecnica per "armare e disarmare" le gallerie.

Fu così che, per la prima volta , Ugo e compagni sentirono parole tipo: "le bouvio o la diretta" ovvero le gallerie principali distribuite una ad ogni piano in quota, la prima chiamata "testa de taja" era posta in cima al filone. E poi c’erano le "costresse", le diramazioni della diretta ricavate alla stessa quota. E ancora il "montage" che rappresentava l’apertura della vena di carbone in salita e serviva per collegare la nuova diretta con quella vecchia che stava più in alto. E via via "le troi", argano ad aria compressa, "la valeé", galleria in pendenza, "le flou", un ruscello di melma formata da acqua e carbone. E tutto questo per estrarre "le bon charbon" oppure "le charbon normal", essi si differenziavano per qualità e purezza.

La miniera aveva due pozzi, il primo dove entrava l’aria e veniva estratto il carbone ed il secondo, chiamato di ritorno, dove scendeva il materiale di cantiere e dove l’aria usciva dopo aver percorso e ventilato le gallerie dove lavorava "la sciolta", ovvero un turno di minatori. Nell’arco delle 24 ore erano organizzati tre turni dalla 6.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00.

L’ascensore che condusse i 40 aspiranti minatori lungo il pozzo di ritorno era composto da quattro piani. Il primo era alto perché era quello dove salivano i cavalli solo in seguito sostituiti dalle macchine. Erano i cavalli a trainare i vagoni ed aiutare l’uomo in quelle indicibili fatiche. Gli altri tre piani, alti meno di un metro e mezzo, erano riservati alle persone. Ogni piano poteva reggere dieci persone accucciate per ottimizzare gli spazi quando, al posto delle persone, c’erano i vagoni. E mentre il capo snocciolava spiegazioni e termini tecnici, un unico sentimento accumunava i nostri ragazzi: la paura. Ecco il ventre della terra, il buio ed un colore solo, il nero. Quello dell’aria, quello del carbone e delle facce dei minatori ove come diamanti incastonati risaltavano gli occhi buoni e puliti, specchio di un animo forte e deciso tipico degli uomini veri che sanno coniugare coraggio e paura, sfidando le viscere della madre terra sino ad amarle. Mentre l’ascensore scendeva, dal basso si levò una nube bianca e la paura divenne ben presto panico, ma il capo tranquillizzò la comitiva spiegando che si trattava di condensa dovuta alla stagione autunnale. L’aria di entrata era fredda ed incontrando quella calda della miniera formava queste nubi di vapore contribuendo a rendere il luogo ancor più da inferno dantesco. A mille metri di profondità la tempertaura oscilla tra i 35 ed i 40 gradi, questo fenomeno era pertanto parte del ciclo della vita in miniera.

Non tutti ressero l’impatto con le tenebre e l’ambiente della miniera. Alcuni, in preda a tremori e crisi di panico, vollero risalire subito giurando di non mettere mai più piede in una miniera.

"Io ero un po’ preparato perché avevo lavorato in galleria con i tedeschi durante la guerra- rammentava Ugo-anche se l’impatto fu anche per me duro e di grande impressione, ma alcuni persero letteralmente il controllo e vennero rispediti all’aria aperta".

Chi rinunciò alla miniera venne accompagnato nei dintorni di Bruxelles e rinchiuso in un ex campo di concentramento e di lì non si poteva muovere. Al raggiungimento di una certa quantità di persone e all’arrivo di altri operai venivano rispediti in Italia con lo stesso treno-tradotta che aveva condotto i nuovi arrivati. Il contratto prevedeva almeno un anno di lavoro in miniera e non altre occupazioni, per cui non c’era alternativa o miniera o a casa. Nessuna manifestazione di solidarietà, nessun corteo, nessun striscione, solo la testa bassa, il silenzio e l’angoscia per l’incerto futuro di chi tornava a casa sconfitto.

I quattro ragazzi di San Gregorio nelle Alpi rimasero per due anni nella miniera Esperance poi Ugo, all’età di ventidue anni, ritornò in Italia con il proposito di cambiare lavoro e trovare una occupazione vicino casa. Ma, dopo otto giorni dal suo arrivo, venne chiamato in caserma a Belluno dove l’ attendevano una divisa ed un cappello d’alpino ovvero la naja. Belluno, Trento e poi 7 mesi alla scuola artificieri di Roma forte dell’esperienza di due anni in miniera. Finito il servizio militare Ugo cerca ancora lavoro ma senza risultati. Dopo un tentativo durato tre mesi di lavorare a Soverzene con una impresa locale, andata e ritorno in bicicletta da Paderno tutti i giorni, Ugo pensò all’Argentina dove si trovava il fratello Gino, poi un pensiero all’Australia infine il richiamo della miniera. Ugo riparte per il Belgio ma stavolta si ferma a Mons nella miniera di Quaregnon. Era la primavera del 1952. Ugo perse di vista gli amici, non si rividero più.

Quaregnon fu un salto di qualità come miniera, nuovi amici, le macchine avevano sostituito i cavalli, l’alloggio era decisamente migliore.

Ugo non era più un semplice minatore, la scuola artificieri gli aveva dato la qualifica di fuochino "le beautefeux". Il fuochino predisponeva tutti i collegamenti tra le cariche di dinamite, poi retrocedeva con il filo per almeno 100 metri, verificava con la strumentazione apposita la corretta predisposizione delle cariche e, soprattutto, se tutte avrebbero funzionato contemporaneamente ricevendo l’impulso l’elettrico. Dopo dieci minuti dall’esplosione il primo a giungere sul luogo dell’esplosione è il fuochino, nessun altro si può avvicinare, egli controlla le cartucce esplose e che tutto si fosse svolto in modo regolare, solo così dava il benestare per il lavoro dei minatori.

In pratica il fuochino era l’ultimo ad allontanarsi dalle cariche ed il primo a tornare sul luogo dell’esplosione.

"Quello del fuochino è un mestiere di grande responsabilità- rievocava Ugo- un errore può avere conseguenze disastrose, ci vuole competenza, equilibrio e grande professionalità. Durante la mia permanenza a Quaregnon non vi furono incidenti dovuti a crolli imprevisti o ad altre situazioni, come ad esempio la presenza del grisù. Per segnalare la presenza del grisù, un gas leggero ed inodore che mescolato in misura almeno del 6% all’aria diventa esplosivo, avevamo le lampade con una fiammella che, in caso di presenza, si allungava e diventava blù. Per avere queste conoscenze ci mandavano, regolarmente retribuiti, alle scuole serali dove c’erano veri e propri laboratori di prova.

Le disgrazie accadono sempre per errori banali, semplici dimenticanze di un operatore soprattutto nelle manovre degli ascensori. Proprio a causa di una svista accadde un incidente per cui l’ascensore, con a bordo 11 operai, sbattè violentemente sfondando il pavimento ed i poveri operai volarono per 600 metri. Ero della squadra di soccorso, la scena fu sconvolgente. Riempimmo a caso 11 bare con i pezzi che trovavamo sparsi per il fondo. Questi episodi si ripercuotono sul morale di tutti, paura, sgomento e la consapevolezza che su quell’ascensore poteva esserci ognuno di noi. Poi la vita riprende, non c’era alternativa".

Il matrimonio nel 1954 con Vittorina, italiana, ma nata e vissuta in Belgio perché figlia di un emigrante italiano, due figli nati a Jemappes ed il desiderio di rimanere per sempre in Belgio. Ma un giorno, nel 1961, il medico chiamò Ugo e, con la radiografia in mano, gli disse che non poteva più lavorare in quella che era diventata "la sua miniera". Piccole tracce di polvere si erano depositate nei suoi polmoni non era il caso di continuare. Sorpreso ed avvilito Ugo fu costretto ad abbandonare la miniera con la pensione di invalidità. Decise che i figli dovevano rimanere italiani e frequentare le scuole italiane sin dall’inizio. Vendette il materiale acquistato per costruirsi la casa in Belgio ed acquistò un terreno a Santa Giustina e lì fece costruire una casetta per sé e la famiglia. Poi il lungo viaggio di ritorno con un’automobile appena acquistata, non più il treno. Un viaggio accompagnato da pensieri e dalla preoccupazione di dover ricominciare un’altra volta ma sorretto dall’idea di tornare a casa, parlare il suo dialetto, calpestare la propria terra. La Foresta Nera, il Brennero, la Valsugana e le "scalete de Primolan".

"Guarda Vittorina, le casette bianche e pulite della Valbelluna...".

Arnelio Giovanni Bortoluzzi