Non possiamo ridurre le Alpi a un ricettacolo di ruderi umani, dobbiamo prenderne atto

 «Le Alpi non devono diventare un ricettacolo di ruderi umani e non sempre la rovina corrisponde per forza a un fallimento». Lo scrive l’architetto e docente universitario milanese, Luciano Bolzoni nel suo ultimo volume, edito da Priuli&Verlucca, «Abitare molto in alto - Le Alpi e l’architettura», uscito nei giorni scorsi tobre scorso e presentato in anteprima ad Aosta in occasione del convegno «Architettura e sviluppo alpino», promosso dall’Osservatorio sul sistema montagna Laurent Ferretti della Fondazione Courmayeur. Bolzoni attacca, nel suo libro, la visione di una montagna intesa come «luogo in cui ambientare per forza l’arte del ricordo a tutti i costi», paesaggio sottovetro «con tetti a due falde e vecchi scarponi immersi nell’acqua stantia», proponendo una ricognizione di quanto costruito fino ad oggi in quota. Con un obiettivo: dismettere ciò che non serve, recuperare ciò che può essere riutilizzato. «Alcune costruzioni della Prima Guerra Mondiale in Veneto o fabbricati di servizio abbandonati - scrive l’autore del libro - possono diventare occasioni per un turismo colto e suggerire modalità di fruizione differenti dall’attuale abbandono o, perchè no?, possono essere demolite a dimostrazione che la montagna non è solo il luogo in cui ambientare per forza l’arte del ricordo». Non si sottraggono da questo bivio nemmeno gli edifici considerati storici e di valore architettonico: Bolzoni, ricorda in particolare «lo stato di abbandono» dello SportHotel del Paradiso del Cevedale in Val Martello - un rudere muto e decontestalizzato che gli appassionati di montagna altoatesini e trentini conoscono bene - ideato da Giò Ponti nel 1936, e commenta: «Forse sarebbe stato meglio abbatterlo e restituire l’area al paesaggio alpino».

Lo abbiamo intervistato su questa proposta specifica e sulla filosofia di fondo che tiene insieme le pagine del libro e che affronta un tema caldo anzi caldissimo, basti pensare alle polemiche innescate dal progetto del nuovo albergo Mezdì nella zona di vincolo paesaggistico all’Alpe di Siusi.


«Siamo abituati a pensare l’architettura di montagna come un elemento aggiuntivo ...
MAURO FATTOR«Siamo abituati a pensare l’architettura di montagna come un elemento aggiuntivo rispetto ad un ambiente che da anni amiamo immaginare come immacolato e definito in una sorta di immutabilità che tende all’immortalità. Ma non è così, visto che, probabilmente, non esiste spazio più violato di quello alpino». Così Luciano Bolzoni, seguendo il filo di un discorso dalle molte sfaccettature. Cosa cambia questo rispetto alle modalità del costruire in montagna? «Cambia eccome. L’architettura è immersa in un paesaggio, e per questo essa stessa diventa paesaggio. Dobbiamo imparare a valutarla da questo punto di vista. Né il paesaggio naturale alpino, né quello costruito, sono orizzonti incontaminati e quindi eterni, senza tempo. Proprio il contrario: hanno una storia e di conseguenza invecchiano. Oggi le nostre Alpi sono iper-costruite ed è scontato ritenere che la quantità abbia lasciato ben poco spazio alla qualità costruttiva: sono un collage di architetture orfane di un’architettura di riferimento». È qui che si inserisce il discorso sui ruderi? «Le architetture alpine invecchiano inesorabilmente, anche se sembrano non morire mai. Si spengono lentamente in un’agonia immersa in un silenzio assordante. Ad un certo punto non servono più, bisognerebbe prenderne atto ed agire di conseguenza».
Sul piano pratico cosa significa? «Che chi vuole rinnovare, ricostruire, trasformare, per prima cosa deve presentare un progetto dettagliato di dismissione dell’esistente. La prima tavola che le commissioni tecniche dovrebbero vedere prima di procedere all’analisi di qualsiasi nuovo progetto riguarda esattamente questo aspetto. Che senso ha lasciare in piedi per decenni una struttura come quella di Giò Ponti in Val Martello? Molto meglio abbatterla e restituire l’area all’ambiente naturale».Lei teorizza architettura alpina e paesaggio come un continuo inscindibile. Come muoversi allora, quando si tratta di costruire e non di abbattere? «Parto dal presupposto che tutto ciò che viene costruito in montagna deve essere verificato qualititativamente e quantitativamente in funzione di una molteplicità di fattori, dove la bellezza potrebbe non coincidere per forza con l’utilità o la bruttezza con la quantità».Un confronto a tutto campo anche con l’architettura tradizionale, senza fare sconti a nessuno. «Ci sono brutti edifici rurali che vengono considerati ”giusti” sempre e comunque semplicemente perchè fanno parte dell’immaginario collettivo. È sbagliato. Non ha più alcun senso oggi affrontare il tema dell’architettura di montagna partendo solo dal’applicazione di vecchi concetti oppure, il che è peggio ancora, adottando l’idea della rottura con il passato sempre e dovunque». Spesso si ha l’impressione che molti progetti siano figli del narcisismo dei progettisti o della megalomania dei committenti piuttosto che di un lavoro di ricerca. «Non è solo un’impressione: è effettivamente così. Ed è un problema reale». Se l’architettura è paesaggio, come lei sostiene, lungo quali coordinate occorre muoversi? «Costruire non vuol dire solo fare; costruire significa disegnare sul territorio, e quindi nel paesaggio, ”novità” che rimarranno in piedi per molto tempo, costruite per un territorio che non deve essere concepito e sfruttato come un giacimento per il turismo. Quest’ultimo, per contro, avrà un ruolo fondamentale nel gioco dell’architettura: la buona architettura potrà favorire il turismo, da quello diffuso ad un diverso impiego delle strutture contemporanee già abbandonate, magari dopo appena un cinquantennio di vita». Ci sono esempi di buona architettura in giro per le Alpi? «Certo che ci sono: in Alto Adige e altrove in Italia, ma anche in Svizzera o in Austria. Quello che io prediligo sono le terme di Vals, dell’architetto Peter Zumthor, il rappresentante perfetto di un modo forse scomparso di fare veramente architettura senza calarla dall’alto». Alto Adige 8-11-09

 


 

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Il lavoro “Vanity – Gio Ponti: Paradiso del Cevedale” dell’artista libanese Paola Yacoub è centrato sull’Hotel Paradiso di Gio Ponti che si trova nella remota Val Martello. L’Hotel Paradiso fu costruito nel 1935 su progetto di Gio Ponti da un colonnello piemontese, Emilio Penati, grazie ai fondi del partito fascista e del Ministero del Turismo italiano. Nel 1943, l’albergo da meta per il turismo elitario si trasformò in sede di alcune truppe speciali del nazionalsocialismo. Nel 1952 fu rilevato dall’imprenditore veneziano Bennati, che modificò le proporzioni originarie ingrandendo l’edificio e cambiando il verde della facciata in “rosso veneziano”. Dal 1955 l’albergo è rimasto sempre vuoto, nonostante la famiglia meranese Fuchs, proprietaria del marchio Forst, l’abbia rilevato nel 1976. Oggi l’edificio si presenta come una costruzione di stampo razionalista immerso nel paesaggio, di cui è possibile vedere unicamente la facciata.

Paola Yacoub è rimasta rapita dall’inquietante presenza dell’esterno, difficilmente decifrabile e inquadrabile in una chiara definizione di insieme. L’edificio lascia aperta la questione riguardante il suo stato di rovina, ci si interroga infatti se esso sia ascrivibile al cambio di destinazione subìto durante la guerra o semplicemente ad un graduale abbandono. Paola Yacoub si avvicina a questo aspetto. Paola Yacoub è nata a Beirut nel 1966. Ha studiato architettura all’Architectural Association School of Architecture a Londra e lavorato dal 2000 come artista e fotografa. Numerose le personali, fra le altre, al Kunst-Werken di Berlino, al Museo d’Art Contemporani di Barcellona e alla Konsthall di Malmö. Nel 2003 ha preso parte dalla Biennale di Venezia. Paola Yacoub è artist in residence del DAAD a Berlino. fonte: http://www.museion.it/#361