(note a margine di un convegno su “progetto e valorizzazione dell’ambiente alpino” tenutosi a Lozzo di Cadore (Bl) il 24 aprile ’09, organizzato da “Forum per l’architettura della Provincia di Belluno”)

Vi sono vaste aree nel Veneto nelle quali lo sviluppo infrastrutturale, delle attività economiche industriali e artigianali e dei nuovi insediamenti abitativi, direzionali e commerciali degli ultimi cinquant’anni ha comportato una grande modificazione del paesaggio, e di quello agrario in particolare, caratterizzato ora da un urbanesimo diffuso nel quale sempre più spesso si accavallano, ripetendosi, funzioni le più diverse - Comune dopo Comune - mancando una ordinata “selezione” del territorio.
Il fenomeno è stato oggetto di tali e tanti studi analitici, proposte, documenti pianificatori da averne quasi perso il conto; sta di fatto che in tanti casi è oramai difficile ipotizzare azioni riqualificative a medio termine del paesaggio da parte degli Enti Pubblici, alle varie scale di competenza, senza una condivisa rimeditazione da parte di tutti i soggetti coinvolti (cittadini, Enti territoriali, imprenditori ecc..) sulla sostenibilità dello sviluppo nei prossimi decenni e sui riflessi di quest’ultimo sul paesaggio.
Uno sviluppo che - in generale - ha portato fin qui indubbio benessere alle popolazioni venete, le quali solo una cinquantina d’anni fa erano costrette a far la valigia per procurarsi il pane altrove, ma che ha, per certi versi, condizionato quello futuro. In effetti appaiono eccessivamente ingenerose le critiche “su tutta la linea” alle trasformazioni del territorio Veneto se solo pensiamo alle miserevoli condizioni “di partenza”: al censimento del ’61 non arrivavano al 50% le abitazioni dotate di gabinetto, per citare un indicatore significativo sulle condizioni di vita. In quegli anni era precipitata la crisi nel settore primario; alla mezzadria e al lavoro sui campi non si erano ancora sostituite vere prospettive occupazionali nell’artigianato e nell’industria.
Ciò è a dire che, se corrisponde al vero che dal 1951 al 2001 il territorio veneto dedicato all’agricoltura è sceso da oltre il 90% a meno del 60% del totale ( con una perdita di 2300 Kmq : il dato è desunto da un’intervista sul Gazzettino del 2.11.’08 al Direttore della Fondazione Benetton, D. Luciani), vi sarebbero – quantomeno in parte - anche delle motivate e reali giustificazioni a spiegazione della manifestazione trasformativa: necessità, quando il fenomeno dell’emigrazione invertì la sua tendenza, di nuove infrastrutturazioni, aree produttive per il secondario in progresso ed espansione degli insediamenti con miglioramento degli standard residenziali, sommati purtroppo al perdurare costante della crisi agricola (alle prese con il confronto con i mercati europei e mondiali) e, di conseguenza, degli scompensi nella cura dei suoi ambiti, uscita dal settore degli occupati - abbandono del coltivato - avanzamento della boscaglia in tanti casi, soprattutto nelle aree “marginali” di montagna ecc...
Quel che è certo è che ciò che è stato non può più ripetersi. Anzi, al territorio agricolo, in particolare, l’attenzione da parte della “politica” dovrà essere maggiore di prima, se non altro in favore della razionalizzazione dei (costosissimi) servizi ad un territorio eccessivamente/estesamente urbanizzato, oltre che per non sprecare altra superficie utilmente coltivabile.
La crescita economica, nelle sue fasi di rallentamento e di crisi come l’attuale, lascia teoricamente aperte le porte a rimeditazioni sui possibili cambiamenti degli indirizzi strategici, nel caso specifico contando anche sull’attitudine “imprenditoriale” e organizzativa in genere della gente veneta che ha già dimostrato in passato di saper assimilare in fretta le novità e i cambiamenti. Il problema, semmai, è che nei momenti di crisi più evidente e sentita, come quella che stiamo attraversando, l’emergenza vera è di “salvare il salvabile” in termini di occupazione e lavoro e non è il tempo ideale, venute meno alcune “certezze” di prima, per programmare, su basi sicure, un futuro economico-sociale diverso dal ieri. Per converso, in tempi di “abbondanza” non vi è lo stimolo giusto per pensare di cambiare rotta celermente e si dilatano i tempi delle decisioni.
Per cercare di invertire, almeno in piccola parte, questa logica, servirebbe spender del tempo, nel guado della crisi, anche – se possibile - per analizzare a fondo, prima di tirar somme, le singole questioni che possono entrare a far parte di un disegno complessivo del nuovo sviluppo delle attività umane, compatibilmente con le risorse disponibili. Ne potrebbe uscire un “approccio”, nel ragionare intorno ai problemi sul tappeto nella prospettiva del rilancio delle condizioni di benessere, nient’affatto scontato.
Un ambito di indagine sicuramente importante riguarda il “governo” del territorio e delle sue potenzialità nei diversi scenari utilizzativi, da parte dell’uomo, delle sue risorse, fatte salve le sensibilità sociali che sono sempre più andate accrescendosi e diffondendosi in merito alla salvaguardia e alla “custodia” dell’insostituibile patrimonio naturale concessoci in godimento: quello agricolo vi rientra a pieno titolo.
Nel territorio si incontrano e scontrano assieme gli interessi i più diversi, ma è indubbio che solo esso rappresenta “il luogo” cui si rapportano tutte le scelte strategiche dello sviluppo, immediato e futuro, qualunque esso possa essere. Anche nel solo ipotizzare una determinata scelta settoriale, non si può prescindere, infatti, da una verifica delle complesse “compatibilità” con le varie azioni riguardanti “l’assetto” territoriale. Né, restando in tema, è possibile operare tale scelta senza una “valutazione” complessiva della sua ricaduta sulla particolare area coinvolta, sufficientemente omogenea sotto il profilo insediativo nonché ampia per estensione. Vi è, inoltre, la sua interrelazione con altre scelte settoriali (la questione riguarda, ad esempio, i vari distretti produttivi) ed è necessario inquadrare - sempre tale scelta - in un “concetto” che ha valenza soprattutto culturale, vale a dire quale sia il “modello” di territorio che si ha in mente di perseguire nel prossimo futuro nel momento in cui si intuisse che è impossibile ricalcare quello del recente passato.
Non a caso la moderna pianificazione urbanistica comunale/sovracomunale viene fatta precedere da premesse strategiche ( documenti preliminari) sulle quali innestare, attraverso la strumentazione operativa, le possibili azioni dello sviluppo futuro vagliate attorno alle fondamentali esigenze della vita dell’uomo (casa, lavoro, nutrizione, istruzione, salute, ricerca, invenzione, meditazione, tempo libero ecc…) in una cornice compatibile con il mantenimento di un ambiente naturale vivibile. Ruolo importante, dunque, quello della pianificazione urbanistica se riesce a interpretare le premesse strategiche (e possibilmente una loro condivisione il più ampia possibile) e importante è la “scala” entro cui operare tali scelte strategiche. Troppo spesso, infatti, la sola scala “comunale” non è ambito sufficiente a scongiurare casualità : vi sono tematiche (prendiamo il “paesaggio” ad esempio, ma moltissime ve ne sono di pari grado) mal affrontabili, seppur virtuosamente, da una motivata Amministrazione Comunale se quelle vicine adottassero provvedimenti localizzativi confliggenti (in una visione “d’assieme”) con le aspirazioni della prima.

Restiamo sul paesaggio. Attorno al tema del paesaggio e al suo particolare “legame” con una delle esigenze della vita dell’uomo moderno qual è il “tempo libero” (a sua volta legato alle attività d’offerta di “turismo” e, dunque, ad una delle scelte strategiche dello sviluppo futuro nelle aree a ciò adatte) è utile soffermarsi a discutere - a fondo - per definire con chiarezza il ”modello” che si intende perseguire, la “scala” territoriale nella quale organizzare le azioni dello sviluppo e le scelte pianificatorie conseguenti.

Prendiamo il caso di un territorio vasto come quello provinciale di Belluno nel quale l’Ente Provincia ha adottato un suo Piano Territoriale di Coordinamento dopo un lungo iter discussorio di un Documento Preliminare a tale Piano, accompagnato da un Piano Strategico sulle scelte fondamentali dello sviluppo futuro. Possiamo dire che, finalmente, le singole “strategie” pianificatorie comunali (o sovracomunali) dovrebbero far riferimento ad uno Strumento di visione ampia nel quale riconoscere le proprie potenzialità per non disperdere in rivoli di esperienze - tra loro scollegate - soprattutto le opportunità di rilancio economico complessivo che, nel caso del “tempo libero-turismo”, possono appoggiarsi su una risorsa irripetibile qual è il paesaggio, montano e vallivo, di queste zone.
In realtà, assistendo a quanto avviene nella formazione dei singoli PAT (Piani di assetto del territorio introdotti dalla legge urbanistica n°11/2004 della Regione del Veneto) di molti comuni di questa Provincia, vi è la sensazione che non sia sufficientemente sentita l’esigenza di un riferimento ad un disegno territoriale complessivo provinciale nemmeno in relazione ad argomenti nei quali la “visione d’insieme” sarebbe indispensabile. Ciò imporrebbe, se si è convinti che questa è la strada che si deve percorrere, un nuovo approccio economico propulsivo e una programmazione infrastrutturale verso un vero rilancio delle attività legate all’ospitalità turistica invernale ed estiva, sapendo cogliere anche le novità e l’evoluzione di tale domanda.
Se è vero, come ha sostenuto il dott. Luciano Pilati, economista - docente all’Università di Trento, relatore ad un recente, molto interessante Convegno sulla valorizzazione dell’ambiente alpino promosso da “Forum per l’Architettura della Provincia di Belluno” a Lozzo di Cadore il 24.04.’09, che sarebbe valutabile in ben 700 milioni di euro annui “il costo della “rinuncia” ad un vero sviluppo turistico della Provincia di Belluno (la quale conta su ca. 4,5 milioni di presenze-anno ( alberghiere più extralberghiere -dato dell’anno 2008 - nota 1), vale a dire rispettivamente ca. un sesto ed un quarto di quelle delle confinanti Province di Trento e Bolzano), e se fosse vero che questa “opzione” di sviluppo è pressochè obbligatoria, non esistendo realisticamente altre valide sue alternative, sarebbe lesionistico per le comunità locali perseguire obiettivi “campanilistici” rifiutando di condividere un disegno territoriale di supporto ad una immagine complessiva di Provincia motivata che fa e sa fare turismo, che si propone come comunità ospitante, che sa proporre ai suoi ospiti un paesaggio di notevole bellezza, attrezzature per il tempo libero varie e ottimamente mantenute, standards qualitativi attrattivi ecc…
Si tenga, però, conto che nella mentalità delle diverse comunità locali-vallive non si sono mai voluti o saputi considerare completamente e a fondo i vantaggi di “far fronte comune” in un ambito provinciale per promuoversi all’esterno e non sarà facile - nemmeno se la necessità imposta dalla attuale crisi lo richiedesse - trovare punti di incontro realmente condivisi. Anzi, non poche sono le comunità che spingono convinte per cambiar di Provincia o di Regione e impostano, di conseguenza, le proprie prospettive per il futuro: l’impari confronto con la disponibilità di risorse pubbliche messe in moto in favore del territorio da parte delle Regioni autonome confinanti accresce tale desiderio di annessione.
In attesa di assistere a migliori ricadute del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) qualora fosse ben calibrato e assimilato, val la pena ritornare su due punti di approfondimento, già evidenziati in sede di diffusione-dibattito sul suo Documento Preliminare. Il primo riguarda un problema di “approccio” alla “lettura” del paesaggio bellunese in relazione al suo intimo legame con il tipo di “immagine identitaria” dei luoghi (e delle comunità locali) che dovrebbe essere trasmessa all’ospite-turista; il secondo un possibile aspetto “normativo” legato ad un qualche “rispetto vegetazionale” che potrebbe essere preso in considerazione in sede di redazione degli strumenti urbanistici comunali e/o sovra-comunali.

1° punto. Sembrerebbe fin troppo banale affermare che “leggere” un paesaggio antropizzato con la lente critica della conoscenza storica delle “attività umane” che vi si sono succedute lungo i secoli sia diverso dal “fotografarlo” ( anche attentamente ) com’è nella sua ultima “veste” e “percepire” come definita tale sua immagine. In realtà dentro questa “banale” affermazione è racchiuso un problema di “approccio” alla lettura del paesaggio. Lo stesso si può dire anche per l’immagine ambientale. In proposito, nella sua celebre opera “L’immagine della città”, Kevin Lynch sosteneva che “…ciò che l’osservatore vede è basato sulla forma esterna, ma il modo in cui egli la interpreta e la organizza, ed il modo in cui egli orienta la sua attenzione, a loro volta determinano ciò che egli vede…”. Un problema, dunque, di natura interpretativo-culturale il cui chiarimento influisce non poco nell’accostarsi, anche in campo urbanistico, ad obiettivi di tutela e valorizzazione del paesaggio.

Tra gli obiettivi principali che erano stati focalizzati nel Documento Preliminare del Piano Strategico Provinciale bellunese rivestiva un particolare significato quello concernente la “ tutela e valorizzazione delle qualità naturali del territorio”. Ciò discende, in linea diretta, dal riconoscimento dell’ambiente quale “asse fondamentale” per le scelte strategiche del territorio provinciale e, più in particolare, dall’aver assunto come preminente, all’interno di tale “asse”, la tematica paesaggistica nella sua espressione piena di valenza culturale. Nel richiamato Documento Preliminare si affermava a più riprese e con forza, infatti, che il paesaggio bellunese va riconosciuto e salvaguardato “..come principio per una valorizzazione identitaria, culturale ed economica in quanto risorsa fondamentale per il turismo e, nel contempo, come azione di contrasto agli squilibri economici…”. A tal riguardo, tra gli obiettivi strategici di riferimento che il Documento Provinciale sottolineava, meritavano e meritano una particolare attenzione ( fra tanti) quelli relativi a interventi di :

tutela e valorizzazione ambientale ( sfalcio dei prati,sistemazione dei sentieri,pulizia dei boschi ecc..);
valorizzazione del paesaggio non costruito(Piani di Sviluppo rurale e azioni di supporto per associazioni e privati senza lo “status” di azienda agricola );
valorizzazione del paesaggio rurale costruito e del paesaggio agrario e forestale ( censimento e catalogazione degli elementi di infrastrutturazione storica del paesaggio, linee guida per la riqualificazione delle risorse panoramiche ed estetico-percettive, censimento e catalogazione tipologica dei manufatti rurali storici ecc..).

Questi importanti (e apprezzabili) concetti potranno certamente essere meglio trasmessi dal PTCP alla pianificazione comunale/sovra-comunale se anche l’analisi delle “trasformazioni” del paesaggio che andranno ad operare i singoli Comuni indagherà a fondo le dinamiche sociali-economiche di tali trasformazioni (sia di quelle avvenute, sia di quelle in atto).

La superficie territoriale di questa estesa provincia montana del nord-Italia, incuneata tra due Regioni autonome ( Trentino-Alto Adige ad ovest e Friuli V.G. ad est delle quali non poco soffre i privilegi autonomistici) e dominata da montagne di incomparabile bellezza, è di quasi 368.000 ettari con una superficie boscata comunale che ne copre circa il 60% ( 218.696 ettari stando ai dati desumibili dalla Carta Forestale Regionale versione 2006)

Ad una parte “alta” del terrirtorio provinciale, caratterizzata da affascinanti zone vallive (Conca d’Ampezzo, Val Boite, Cadore, Valli del Comelico, Val di Zoldo, Valli Agordine ecc..) scandite da capienti corsi d’acqua torrentizi e conosciutissimi rilievi rocciosi dolomitici ( pensiamo solo alla bellezza del gruppo delle Marmarole, al Pelmo, alle Tofane, all’Antelao, al Civetta per citarne solo alcuni) si contrappone la fascia più “bassa”, maggiormente urbanizzata, della Val Belluna, attraversata dal fiume Piave (comprendente il suo bacino idrografico ai piedi del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi), dove vive più della metà della popolazione complessiva che al 2008 (giugno) raggiungeva 213.851 abitanti ( dei quali circa 11.500 stranieri). Cifra comunque inferiore ai 234.921 abitanti al censimento del ’61, con sensibile diminuzione di quelli residenti nelle case sparse e nei vecchi nuclei in favore di un aumento della residenzialità stabile nei centri di fondovalle e della Val Belluna in particolare.

Una Provincia che ha seguito dal dopoguerra in avanti i fenomeni tipici di molte aree di montagna: in un primo tempo spopolamento causato dall’ emigrazione, riduzione progressiva (anche se diversificata nelle varie realtà vallive) delle attività zootecniche e rurali in genere, abbandono delle coltivazioni e dei terreni vuoi dove l’agricoltura e l’allevamento del bestiame erano improntati ad una certa sussistenza locale (nelle terre “alte” prevalente era l’attività boschiva ed il commercio del legname), ma anche nelle zone agricole più strutturate nella formazione di valore aggiunto. A ciò ha fatto seguito una certa ripresa economica a partire dagli anni ’70 ( nota 2) dovuta all’industrializzazione (in specie nella parte “bassa” e in qualche area “specializzata”), al progresso dell’artigianato e al turismo (prevalentemente invernale e solo in alcune zone della parte “alta”).

La “sistemazione“ paesaggistica dei fondovalle (e della Val Belluna, in particolare) ha risentito della modificazione insediativa, intervenuta in modo “diffuso” piuttosto che concentrato attorno a centri attrattori di servizi sicchè è divenuto sempre più difficile riconoscere distacchi tra insediamento e insediamento e margini connotanti quelli di più antica formazione (perlopiù non convenientemente accuditi). Il fenomeno espansivo, come si è già accennato, è stato assecondato dalla perdurante “crisi” delle attività nelle campagne riflessasi in uno scarso valore assegnato dalle popolazioni locali al settore primario (nota 3) e, per conseguenza, alla sua potenzialità redittuale, nonchè dalla frantumazione della proprietà fondiaria.
D’altro canto anche il clima culturale/politico è stato normalmente (con molte giustificazioni) propenso, sino ad ora, ad assecondare quei fattori di sviluppo economico che avevano consentito a queste aree (partite da sfavorite condizioni di disagio e povertà, se possibile maggiori di quelle venete) di conoscere un relativo benessere fino a raggiungere una piena occupazione, senza eccessivamente darsi preoccupazione se una urbanizzazione troppo estesiva del territorio potesse o meno tornare a danno della sua “immagine identitaria” o della possibilità di mettere a reddito diversamente gli ettari di incolto. Ora, fatalmente in virtù della crisi, è tempo di rimeditare precedenti scelte sull’emarginazione superficiale delle campagne o sulla sua eccessiva erosione poiché beni naturali e qualità di essi potrebbero diventare fonte di ricchezza se il loro salvaguardato godimento fosse valutato quale fattore di produzione di nuovo reddito.

Se è corretta l’osservazione sulla “crisi” delle attività nelle campagne è indubbio che tale elemento incida in maniera decisiva sulla modificazione di un paesaggio rurale che un tempo connotava l’originario “carattere paesistico” e la conseguente percezione visiva dei fondovalle e dei connessi declivi. Ne consegue che l’auspicata “valorizzazione identitaria” (traguardo che si prefigge con forza il Piano Strategico Provinciale) del paesaggio bellunese che fa capo al suo riconoscimento e alla sua salvaguardia all’interno del PTCP, nonché culturale ed economica delle comunità locali, non può che porsi, quale obiettivo primo, il recupero, la valorizzazione e l’incentivazione economica (aspetto non disgiungibile dall’auspicabile inversione di tendenza) soprattutto di quelle attività dell’uomo che abita la montagna le quali consentano pari recupero e valorizzazione di quel paesaggio rurale che, in seguito al diffondersi dei nuovi “modi d’uso” del territorio, ha subito anche la sottomissione ad una nuova immagine identificativa del paesaggio montano.

Sempre in quel convegno di Lozzo di Cadore il dott. Davide Cinalli, filosofo, rimarcava opportunamente il fatto che la lettura del territorio montano non può che essere frutto di un processo “interpretativo” che si rinnova, il quale non può prescindere dal come esso venga “culturalmente” concepito dalla popolazione che lo abita e lo vive.
Ciò significa che se la sua identificazione conseguisse ad una “attesa esogena” della sua ri-sistemazione (e delle sue “installazioni” infrastrutturali e di servizio, fossero anche progettate per il turismo/tempo libero) e se le comunità locali, in coordinamento e cooperando tra di loro senza dividersi, non fossero in grado di dirigerla secondo un indirizzo nel quale immedesimare orgogliosamente il proprio radicamento profondo, filtrato attraverso il sofferto vissuto dei cambiamenti degli ultimi cinquant’anni, anche il paesaggio che viene a manifestarsi subirebbe delle improprie e dannose forzature: o attraverso una ricaduta di una (imposta dall’alto e mal-digerita) cultura vincolistica tout-court, oppure attraverso l’avvicinamento forzato a modelli organizzativi e di sfruttamento del suolo importati dagli esempi di strutture insediative di pianura o metropolitane. Due facce, a guardar bene, di una stessa medaglia.

La questione non è di poco conto poiché già nel Documento del Piano Strategico Provinciale la valorizzazione del Paesaggio, enunciata come “azione di contrasto agli squilibri economici”, era anche stata considerata, come già menzionato, nella sua potenzialità di “risorsa fondamentale per il turismo”.

Ma quale sarà, a questo proposito, “l’immagine identificativa”, anche in termini di estensione, alla quale ci si vorrà riferire e quella che si vorrà promuovere nelle varie realtà locali? E’ auspicabile non sia un’immagine che “fotografa” l’avvenuta modificazione del paesaggio rurale se si volessero trasmettere anche al turista (e si spera…non solo) quei valori identitari nei quali si fonda la peculiarità culturale di un paesaggio “unico”.
In altre parole, anche sotto il profilo “urbanistico” l’auspicata “valorizzazione identitaria,culturale ed economica” del paesaggio bellunese non è disgiungibile da una “rimeditazione” di tipo squisitamente culturale che deriverà dall’analisi delle cause (e del perdurare di esse ) trasformative del comparto agricolo e dell’abbandono, in larga misura, di tutte quelle minute o complesse attività nelle campagne e di, conseguente, cura dell’ambiente che si svolgevano su un territorio dominato soprattutto dai prati e non già dai boschi, scandito dallo snodarsi dei percorsi vicinali e interpoderali, caratterizzato dalle sistemazioni colturali, dai corsi d’acqua, dall’alternato susseguirsi di agglomerati e spazi aperti ecc..
“Segni”, cioè, del lavoro dell’uomo che da tempo immemorabile “risalì” la montagna per abitarla, stabilendo con essa un equilibrato “patto” di convivenza. Ad esempio l’avanzamento del bosco (e della boscaglia….) fin dentro i centri abitati, fosse anche proponibile il bosco stesso come forte elemento simbolico a sostegno di una “offerta turistica” rivolta ad un’utenza metropolitana - alle quotidiane prese con lo smog - che ad esso assòci un benefico potere ossigenativo (oppure in chiave “ecocentrica” come espressione della superiore potestà della Natura la quale, reclamando il suo primato, lo impone dando sfogo ad una crescita vegetazionale-arborea generalizzata) non appartiene certo all’immagine identitaria- identificativa del paesaggio bellunese faticosamente modellato dagli avi, esso stesso legato alla storia e alla civiltà delle popolazioni della montagna.

Una tale ri-sistemazione dei luoghi non sarebbe comunque possibile (in generale per tutte le aree verdi dell’arco alpino) senza un adeguato intervento pubblico in termini di risorse da impiegare. Questa è la nota più dolente: la mancata, piena attuazione di quei criteri di “sussidiarietà” in favore delle popolazioni residenti nelle zone di montagna, “…riconoscendo alle stesse la funzione di “servizio” che svolgono a presidio del territorio e fornendo gli strumenti necessari a compensare le condizioni di disagio derivanti dall’ambiente montano…”, che una buona legge dello Stato sulla montagna disponeva nel lontano 1971, agli albori delle trasformazioni. Nel caso bellunese la sua “sofferenza” nel confronto diretto con le provvidenze riservate alle aree verdi dalle confinanti Provincie autonome ( la sola Provincia di Trento può permettersi di riservare alle sue amene campagne ca. il 20% del proprio bilancio annuale….) è di tutta evidenza e va segnalata se non altro per auspicare una stagione nuova nella prospettiva della futura riorganizzazione federalista dello Stato di cui tanto si parla e delle future politiche “riequilibratrici” in favore della montagna e della sua agricoltura in particolare.

Le conclusioni alle quali si è pervenuti (certamente in forma eccessivamente sintetica e semplificativa) portano ad una considerazione: nel caso specifico del PTCP Provinciale bellunese e al riguardo della tematica paesaggistica sussisterebbero le condizioni per ricollegare gli “Indirizzi” propri di uno strumento Urbanistico sovracomunale alle “politiche” in materia agricola proprie di un Piano di Sviluppo rurale, di specifici Piani settoriali (miglioramento boschivo, viabilità forestale ecc..) e alle “azioni” di contrasto al degrado ambientale messe in atto sia da privati, sia dai vari Soggetti Istituzionali preposti alla valorizzazione e recupero dell’ambiente stesso.
E’ un caso, dunque, in cui un Piano urbanistico (di indirizzi) collega necessariamente e intimamente un Piano di Sviluppo Agricolo a tutti quei provvedimenti normativi (che vanno semplificati il più possibile negli strumenti comunali) e contributivi (leggesi: dotazione di adeguate risorse economiche in favore delle zone montane, accesso al credito privilegiato ecc…che siano in grado di favorire in generale una rinnovata cura del territorio, in particolare di quello rurale, e una ripresa di configurate attività economiche che vi si possono utilmente svolgere. Sia produttive principali, di commercializzazione dei prodotti, sia integrative in un progetto complessivo di qualificazione – forte dell’attrattiva di luoghi ben mantenuti - dell’offerta di ospitalità, e servizi connessi, nell’ambito delle strutture delle varie aziende agricole, ecc.. ; sono ormai molti i modelli (si pensi alla vicina Austria per non andar lontano) di come il connubio agricoltura-ambiente-turismo riesca ad innescare un interessante sistema di interscambio a sostegno di reti microeconomiche locali ben supportate da una mirata e compatibile infrastrutturazione del territorio.
Il poter rientrare, ad esempio, in anelli e tragitti ciclo-turistici interregionali ben segnalati e promossi a livello internazionale, che si “appoggiano” ad una efficiente rete di trasporto su rotaia, accresce enormemente le potenzialità attrattive (che si sommano anche alla posizione geografica di questa provincia. Posizione che rappresenta un indubbio “valore in più”: chi la raggiunge può spingersi in poco tempo fino al lago, alla collina, alle montagne più alte e arrivare in un’ora fino al mare e nelle città d’arte).

La “politica” dovrà far la sua parte fornendo risposte concrete al richiamo di “scarsa attenzione” nei confronti dell’agricoltura di montagna mosso pubblicamente dai rappresentanti di categoria nella Conferenza Programmatica della Confagricoltura Nazionale di Padova, nel passato mese di ottobre 2008. Questo è l’obiettivo forse più difficile da perseguire, in una visione di tutela “attiva” del territorio non costruito e del paesaggio rurale, poiché supera quella strettamente vincolistica la quale, spesso, prescinde dalla necessità del suo rapporto/confronto con le attività dell’uomo e con il suo vivere quotidiano.

2° punto. Quanto alla “cura” del paesaggio in generale, una ultima breve considerazione. Richiamandoci a quanto esplicitato in merito al 1° punto, non sarebbe affatto da leggersi in modo “impositivo” per le singole realtà locali la stesura coordinata in ambito provinciale di precisi indirizzi normativi che prevedano, in rapporto alle diversificate aree e qualità naturalistiche, veri e propri “Rispetti Vegetazionali”. Soprattutto per quegli ambiti paesaggistici-agricoli prossimi alle strutture insediative stabili, esterni ai perimetri di centri e nuclei, oramai sepolti da speci boschive spontanee , malcurate o infestanti (che, in molti casi, rasentano ormai l’emergenza manutentiva-sanitaria per la pulizia dei luoghi e per i pericoli di incendi ) le quali, oltre a formare disordine visivo evidentissimo, modificano l’immagine identificativa del paesaggio percepibile nel suo insieme, mimetizzando la frattura ( oseremmo dire di tipo prevalentemente “culturale”) che si fa via via più marcata tra aree in cui sono localizzati gli insediamenti e i loro intorni.

Affinché quest’ultimi non si avviino ad esser considerati definitivamente “territorio di risulta”, mascherato dalla sterpaglia, e per ripristinare coni visivi importantissimi in funzione paesaggistica, servirebbe che, oltre alla pulizia e alla cura dei luoghi, anche le speci vegetative ( ancorchè marginali alla campagna, come quelle ripariali dei corsi d’acqua, ad esempio, dove andrebbe prevista maggior pulizia degli alvei da sporcizia e sterpaglia) rispecchiassero un più appropriato assestamento rurale del territorio non densificato.

NOTE

nota 1- Prendendo a riferimento un lungo periodo, il movimento turistico negli esercizi alberghieri in provincia di Belluno ha potuto contare su un aumento delle “presenze” dal 1969 al 2008 di ca. il 30%, passando da 1.533.385 giornate di presenza a 2.000.080, con ca. un terzo di queste (595.760 al ‘08) rappresentate da ospiti stranieri. Per contro, sempre nel medesimo lasso temporale, negli esercizi extralberghieri (alloggi privati, campeggi, villaggi turistici ecc..) si è assistito ad un fenomeno inverso passando da 3.810.911 (di cui il 2% ca. di stranieri pari a 79.484. Fonte: tabelle rilevamento annuali ex Ente Provinciale Turismo ) a 2.542.274 presenze ( con aumento fino a poco meno di un quinto - 346.617- di ospiti esteri. Fonte: elaborazione CCIA BL su dati Regione Veneto).
La variazione negativa nell’extralberghiero, valutando il solo elemento delle presenze, appare particolarmente significativa e probabilmente attiene ad un sostanziale cambiamento della domanda in quell’attività di “affittacamere” che un tempo andava ad integrare il reddito famigliare in diverse zone della provincia. Molti, infatti, erano i gruppi famigliari – in zone rurali, ma non solo - che destinavano per l’affitto “turistico” una o qualche stanza della loro casa e specialmente nella stagione estiva. Con l’industrializzazione, l’espandersi del fenomeno “seconde case”, nuovi stili di vita, nuova domanda qualitativa di soggiorno, questo tipo di attività può non aver trovato pari riscontro in altre similari forme di offerta di ospitalità extralberghiera. In realtà se andiamo a confrontare il dato sugli “arrivi” in strutture extralberghiere (189.378 nel ’69 contro i 330.710 nel ’08) possiamo capire come la diminuzione delle presenze possa essere imputata, quantomeno in parte, ad una diminuzione del periodo medio di permanenza nelle località di soggiorno. Fenomeno che coinvolge lo stesso settore alberghiero: il citato aumento del 30% delle presenze nel periodo ’69-’08 si rapporta ad un aumento di ca. l’80% degli arrivi (da 269.711 a 493.596). Da questo breve excursus si potrebbe trarre una considerazione, che merita un attento approfondimento in prospettiva futura: se nella provincia nel suo complesso la a tendenza a soggiorni più brevi per vacanza rispetto a quarant’anni fa è comune ai due settori, la (supponibile) maggior frequenza di tali soggiorni in più periodi dell’anno, tradotta in quota di incidenza delle “presenze” effettive, avrebbe premiato maggiormente il settore alberghiero.

nota 2- Nella scheda di presentazione del “Rapporto sull’economia locale” curato dalla Camera di Commercio di Belluno e divulgato in occasione della “7° giornata dell’economia-08.05.’09” si può leggere quanto segue a proposito di questo periodo storico: ”…la provincia abbandonò in breve tempo le sue plurisecolari radici contadine: il radicale e tumultuoso mutamento dell’assetto sociale ed economico verificatosi durante il trentennio 1961-1991, coincise con l’inesorabile declino dell’agricoltura. Gli addetti all’industria passarono dagli 86 ogni 1000 abitanti del ’61 (dato compreso tra la media veneta e quella nazionale) ai 131 del ’71. Lo sviluppo manifatturiero, in buona parte dovuto a imprenditori non bellunesi che trovarono conveniente produrre nella nostra provincia, ampliò il tessuto produttivo esistente, basato soprattutto sulle attività legate all’occhialeria e al legno. La crescita economica coinvolse il secondario….e, in misura ridotta, anche al terziario….. L’emigrazione temporanea si ridusse drasticamente, passando dai 30mila emigranti del 1961 agli 11mila di dieci anni dopo…..Negli anni settanta l’espansione economica provinciale - escluse l’occhialeria e la metalmeccanica - ebbe qualche appannamento, mentre l’artigianato godeva di un periodo favorevole con le ditte del settore diffuse un po’ ovunque sul territorio che salirono, tra 1970 e 1980, da circa 5.000 a quasi 7.000 unità….Il censimento 1981 evidenziò, rispetto al ’71, una crescita occupazionale superiore alle 19.000 unità…” .

nota 3- Una semplice consultazione dei dati elaborati semestralmente dalla CCIA di Belluno (Relazioni semestrali sulla congiuntura economica provinciale) fornisce un quadro significativo del fenomeno. Si apprende, ad esempio, che il totale della superficie coltivata, in relazione alle varie produzioni, compreso quelle foraggere, passa dai 132.052 ha. del 1969 ai 45.238 ha. del 2007. Nel 1969 la consistenza zootecnica provinciale poteva contare su 54.500 bovini ( con ca. 29.000 vacche) ridottisi, trent’anni dopo, della metà.
Interessante leggere alcune considerazioni sull’andamento del settore agricolo contenute nella “Relazione sulla situazione economica della provincia di Belluno nel 2007” : “…..Sono decenni, ormai, che l’agricoltura è considerata un settore economico residuale nell’economia provinciale, sia per quanto riguarda il valore aggiunto ( o P.I.L.), sia con riferimento al totale degli occupati. Sotto il primo profilo, infatti, il peso del primario è approssimativamente dell’1% circa del valore aggiunto provinciale; si tratta di valori ampiamente al di sotto della media veneta e nazionale….Anche in termini occupazionali, i dati sottolineano l’esiguo impatto che il settore ha all’interno dell’economia provinciale: nel 2006, appena il 2,1 degli occupati totali (circa 2 migliaia) operava nel comparto…”